Omelia II domenica di Pasqua

Omelia Don Alessio Durante la II domenica di Pasqua

Credo che questo sia il tempo in cui anche noi riviviamo l’esperienza di questi apostoli che per timore dei Giudei si ritrovavano a restare chiusi nel cenacolo. Noi proviamo la stessa paura di fronte a questo male oscuro, a questo nemico che attenta la nostra vita e purtroppo nei confronti di qualcuno è riuscito anche a vincere. A loro va tutto il nostro affetto, la nostra vicinanza e la nostra preghiera, a loro e alle famiglie colpite che cominciano ad essere tante.

Questa pagina di Vangelo mostra la presenza del Signore risorto in mezzo a questa comunità di discepoli impauriti, Vorrei che possa essere rivissuta anche dentro la nostra esperienza cristiana, dentro la nostra vita cristiana di oggi.

Anzitutto vale la pena ricordare che nonostante Gesù avesse annunciato più di una volta la sua passione, l’ora buia del venerdì santo, e la conclusione con la resurrezione, i discepoli non erano riusciti a comprendere fino in fondo di cosa si trattasse. Infatti fin dal primo momento, in quella mattina di Pasqua e anche otto giorni dopo e tutte le altre volte che Gesù si ripresenta risorto, non viene mai riconosciuto subito come il Signore. La Pasqua è molto di più che un ritornare a ciò che è stato, a ciò che era. Anche don Maurizio ce l’ha richiamato con forza e fortemente nella notte di Pasqua: la risurrezione di Gesù è più che un tornare indietro, più che un ricominciare, semmai è un ripartire verso la novità.

Ecco, allora, che anche i discepoli, per riconoscere Gesù, devono fare un cammino, quasi un itinerario. Non possono semplicemente tornare a fare quello che facevano prima, la vita non è più la stessa di prima con l’irruzione della risurrezione. Con l’irruzione della Pasqua del Signore Gesù, è un rilanciarsi verso il futuro, però un futuro che ha dei segni, delle tracce che ti fanno dire “il Signore c’è, il Signore è risuscitato, non è semplicemente un’illusione, un qualche cosa di bello che però poi si scioglie come neve al sole o come una bolla di sapone”. Gesù lascia delle tracce perché i discepoli lo possano riconoscere vincitore anche davanti a ciò che sembrava avere l’ultima parola, quale poteva essere la morte.

Ebbene davanti a questi discepoli intimoriti, impauriti, rinchiusi, la prima cosa che Gesù fa apparendo loro attraverso i muri, con le porte chiuse, che quindi potrebbe anche già inquietare, mostra i segni nelle mani, i segni dei chiodi. Questo già sorprende perché un corpo glorioso che è stato capace di attraversare il buio della morte si presenta con i segni della sconfitta. Sembra contraddittorio, sembra paradossale, invece Gesù mostra le sue mani con i segni dei chiodi.

Le mani sono importanti, le mani sono quel segno che Gesù ha usato per compiere gesti di tenerezza; le mani sono gli strumenti del corpo umano, le membra che Dio stesso ha usato per plasmare la vita di ciascuno quando, attraverso le mani, ha modellato quell’impasto di fango dando la vita a ciascuno; le mani sono davvero la vicinanza di chi ti vuole bene, di chi è capace di darti una speranza, di accompagnarti. Le mani sono capaci di sostenerti.

C’era un telefilm che mi piaceva molto, “La tata”. In una puntata uno dei bambini che questa ragazza curava si divertiva a lanciarsi dalle scale e suo papà lo prendeva in braccio. La “tata” lo rimproverava chiedendo «Perché lo fai?» e lui diceva «Perché so che le mani di mio papà mi tengono».

Quando Gesù mostra queste mani ancora segnate dal foro dei chiodi, ci dice che le mani di Dio comunque ci tengono, non ci fanno cadere, ci sostengono, soprattutto in questi momenti di particolare difficoltà.

Noi oggi non possiamo più tendere la mano, ci è ancora proibito, anche per dimostrare attenzione nei confronti dell’altro. Ma noi sappiamo bene che cosa significa stringersi le mani: significa sentire una presenza amica. Significa anche, quando ci si presenta, ricevere un’attenzione di dignità, essere qualcuno per l’altro che ci tende la mano. Dio è così nei nostri confronti, Dio si presenta come Colui che ci tende la mano e non ci lascerà cadere.

Quel giorno, quando Gesù appare e mostra i segni dei chiodi, non c’è Tommaso. Tommaso è fuori, probabilmente non perché sia il più coraggioso, neppure per usare un’immagine che oggi va per la maggiore, non era fuori per portare il cane a passeggio e neanche per fare la spesa. Mi piace pensare che Tommaso non era in casa perché non ne poteva più di quella comunità. Come poteva credere alla resurrezione attraverso le parole di quella comunità, che doveva essere capace di accompagnare il Signore e nella quale c’è Pietro che lo ha rinnegato tre volte? Dovevano essere sotto la croce e ciascuno, lui per primo, era scappato da quella violenza. Tommaso, mi piace pensare, non si riconosceva più in quella comunità. Anche quando loro hanno il coraggio di dirgli di aver visto il Signore, Tommaso dice «Io voglio vederlo. Non mi accontento più delle vostre parole, della vostra incoerenza, della vostra incapacità di compiere le azioni giuste rispetto quello che mi dite, che fate e che credete».

Però per riconoscere Gesù, per incontrare Gesù, Tommaso ha dovuto ritornare a casa, ha dovuto ritornare in quella comunità, non ha detto “me ne vado”. Qualche volta anche noi abbiamo bisogno di ritornare nella nostra comunità che forse non è la più santa, non è la migliore, non è la più coerente, però è la famiglia che mi trasmette la fede, che mi racconta del Signore risorto. Anche grandi profeti della storia della Chiesa, che qualche volta hanno dovuto faticare nella grande famiglia della Chiesa, hanno riconosciuto che non potevano andarsene perché la Chiesa è l’unica custode della verità della fede del Vangelo e, soprattutto, della Misericordia di Dio.

Un grande come don Lorenzo Milani, attaccato in più di un’occasione anche dalla Chiesa stessa e che, qualche volta, ha attaccato la Chiesa, di fronte alla provocazione di qualcuno che gli chiedeva «Ma perché non te ne vai dalla Chiesa?» lui diceva: «perché è l’unica che mi può dare il perdono di Dio».

In questa domenica della Misericordia dobbiamo anche noi essere misericordiosi con la Chiesa, con la nostra comunità cristiana, con la nostra famiglia dei credenti, anche se fa fatica a trasmetterci la fede e vorremmo attaccarla puntando il dito contro di lei. Dobbiamo riconoscere nuovamente che il Signore è più grande, che la Pasqua è vera non perché siamo coerenti noi, ma perché il Signore si rende presente, nonostante tutto, in mezzo a noi. Allora chiediamo a san Tommaso che ci faccia amare la nostra comunità, che ci faccia amare la nostra Chiesa e che spinga anche noi nella semplicità del desiderio di toccare le ferite Signore, di sperimentare la sua misericordia e il suo amore. Sembra paradossale perché Tommaso chiede, per poter credere, di mettere le dita nelle piaghe del Signore, ma quando il Signore gliele mostra, Tommaso non osa neppure sfiorarle. Gli basta riconoscere che il Signore è così misericordioso e anche così amorevole nei suoi confronti che non osa più sfidarlo; anche la nostra fede è così.

«Ci basta vedere, Signore, il tuo amore e ricominceremo a vivere».